
Di Angelo Ginex, Dottorando di ricerca in Diritto Tributario e Avvocato, Ginex & Partners – Studio Legale Tributario, da “Altalex” – 3 Marzo 2015
È deducibile anche il costo antieconomico, purché sia inerente. L’Amministrazione finanziaria esprime solo un giudizio fondato su indici presuntivi, da cui il giudice di merito può discostarsi. È questo il principio sancito dalla Corte di Cassazione con sentenza del 18 febbraio 2015, n. 3198, che stride irrimediabilmente con il precedente orientamento della giurisprudenza tributaria di legittimità.
Con la pronuncia in commento, i Giudici di Piazza Cavour, intervenendo sulla nota questione della deducibilità dei costi “antieconomici”, hanno affermato tout court che l’Amministrazione finanziaria deve motivare le proprie conclusioni prima di poterne negare la deducibilità e il giudice può comunque discostarsi da tali argomentazioni, riconoscendo la deducibilità delle spese inerenti qualora ritenga non dimostrata l’irragionevolezza economica contestata.
Ciò, in considerazione di quanto disposto dall’art. 54, comma 1, del D.P.R. 917/1986, secondo cui “il reddito derivante dall’esercizio di arti e professioni è costituito dalla differenza tra l’ammontare dei compensi in denaro o in natura percepiti nel periodo d’imposta, anche sotto forma di partecipazione agli utili, e quello delle spese sostenute nel periodo stesso nell’esercizio dell’arte o della professione …”.
Tale norma consentirebbe – sostengono i Giudici di legittimità – la deducibilità dal reddito imponibile degli esercenti arti e professioni delle sole spese provviste dell’attributo dell’inerenza rispetto all’attività esercitata, intendendo sottolineare il rapporto di diretta ed immediata correlazione che deve instaurarsi, ai fini della determinazione della base imponibile, tra la spesa sostenuta e l’arte o la professione esercitata.
Ma non solo. Gli ermellini osservano altresì come “non è utilmente spendibile l’argomento del fisco secondo cui il controllo di inerenza non potrebbe andare disgiunto dall’apprezzamento in punto di ragionevolezza della spesa, onde non sarebbero deducibili le spese connesse a comportamenti del contribuente che non si giustificano sotto il profilo dell’economicità, poiché in tal modo la critica che si muove alla sentenza fuoriesce dal piano dell’errore di diritto, non si censura più la sentenza per aver errato nell’individuazione della norma da applicare, ma per aver errato nel modo di applicarla”.
La vicenda traeva origine da una verifica fiscale eseguita a carico di un medico specialistico (ortopedico), cui era stato notificato un avviso di accertamento con il quale l’Agenzia delle entrate disconosceva la deducibilità del canone corrisposto per la locazione dell’ambulatorio e per i relativi servizi di segreteria. Il contribuente impugnava l’avviso di accertamento dinanzi alla competente Commissione tributaria provinciale, che annullava parzialmente la pretesa tributaria.
Tale decisione veniva confermata anche dai Giudici di appello, i quali escludevano “la sussistenza di una presunzione grave, precisa e concordante, idonea a trasferire sul contribuente l’onere di giustificare altrimenti (cioè sulla base di ragioni economiche diverse dall’illegittimo risparmio di imposta) l’operazione effettuata, ovvero, in altri termini, di fornire la prova della valida esistenza di ragioni economiche”.
Avverso tale sentenza, l’Ufficio proponeva ricorso per cassazione, sostenendo che “rientra nei poteri dell’Amministrazione finanziaria la valutazione della congruità dei costi e dei ricavi esposti nelle dichiarazioni fiscali” e che i Giudici di secondo grado avrebbero “ignorato che sussiste da tempo nell’ordinamento giuridico italiano un generale principio antielusivo, il cui fondamento risiede nell’art. 53 Cost.”. La Suprema Corte ha tuttavia respinto il ricorso, confermando le precedenti pronunce.
In particolare, gli ermellini, dopo aver osservato che, in materia di redditi di lavoro autonomo, la base imponibile è costituita dalla differenza tra l’ammontare dei compensi percepiti e quello dei costi sostenuti inerenti all’attività esercitata ex art. 54 citato, hanno sottolineato che l’inerenza di un costo è legata alla produzione di ricavi, con la conseguenza che, una volta accertato questo legame, è difficile disconoscere la deducibilità senza “ricadere” in una valutazione discrezionale.
Dunque, secondo la Suprema Corte, quando l’Ufficio disconosce la deducibilità di un costo perché ritenuto antieconomico e, quindi, irragionevole, esprime un giudizio fondato su indici presuntivi, da cui il giudice può anche discostarsi, qualora ritenga che le conclusioni cui essa è giunta non dimostrino l’irragionevolezza economica contestata.
Nel caso di specie, la Suprema Corte ha rilevato che le presunzioni utilizzate dall’Amministrazione finanziaria per disconoscere la deducibilità dei canoni di locazione non erano gravi, precise e concordanti e, conseguentemente, ha affermato che potevano ritenersi spese inerenti l’attività professionale e, quindi, deducibili.
La soluzione cui pervengono i Giudici di Piazza Cavour appare particolarmente interessante ed attuale poiché non di rado l’Amministrazione finanziaria, al fine di disconoscere la deducibilità dei costi, si limita ad un’asserita antieconomicità degli stessi, lasciando al contribuente l’onere di dimostrarne la regolarità. Al contrario, secondo la pronuncia in commento, è l’Amministrazione finanziaria a dover motivare le proprie conclusioni prima di poter negare la deduzione delle spese sostenute.
Alla luce dei suesposti principi, appare dunque evidente come l’Amministrazione finanziaria non possa limitarsi ad una mera contestazione di antieconomicità dei costi sostenuti dal contribuente nell’esercizio di arti o professioni, ma deve, invece, motivare le proprie conclusioni prima di poterne negare la deducibilità, e il giudice può comunque discostarsi da tali valutazioni, qualora ritenga non dimostrata l’irragionevolezza economica.
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